Partiamo da un fenomeno che tutti hanno sperimentato almeno una volta nella vita.
Si incontra un amico e gli si fa una domanda: “Come sono andate le vacanze?”
La sua risposta però è lapidaria: “Bene”.
E nient’altro.
Magari si tratta di un buon amico, con cui parliamo spesso. Lo stesso amico che, in altre occasione, alla stessa domanda avrebbe parlato per buoni dieci minuti. Eppure in quella occasione riduce una risposta ad un’unica parola.
Come mai accade questo?
La risposta che ci interessa è forse la più semplice che si possa dare: non ha voglia di parlare.
O, per dirla meglio: non è nello stato emotivo che gli consente di esprimersi in un modo più dettagliato.
Un comportamento di questo tipo è la prima difficoltà che si può incontrare in una sessione di coaching.
Questo fenomeno è molto comune quando si fa coaching in azienda, quando magari il coachee neppure voleva prendere parte alla sessione, ma la direzione l’ha obbligato. O quando pensa che il coach lo esaminerà, poi porterà i risultati al suo capo e questi deciderà se licenziarlo o tenerlo con sé. Insomma, ci sono un bel po’ di idee che lo portano in uno stato emotivo in cui preferisce essere chiuso, evitando di lasciarsi andare.
Seppur in misura minore, questo può accadere anche in una sessione di life coaching, anche se è stato il coachee a chiedere un appuntamento al coach, e anche se per quell’incontro ha già versato una discreta somma di denaro.
Dal nostro punto di osservazione, la questione si può ridurre a questo: l’attenzione del coachee è su uno stato emotivo che gli impedisce di aprirsi, quindi per bypassare questo problema tutto ciò che si deve fare è spostare l’attenzione.
Ma come?
L’ipnosi fondamentalmente si basa proprio sull’attenzione, quindi è possibile utilizzarla per distrarre il coachee dalle emozioni che lo portano a chiudersi, per farlo focalizzare su altro.
Su cosa?
Qualsiasi cosa lo aiuti ad aprirsi nel modo migliore.
Per aiutarlo a scioglierlo possiamo percorrere due strade diverse:
- Raccontargli una storia disseminata di suggestioni
- Proporgli un vero e proprio rilassamento
Si tratta di due modi diversi per rompere il ghiaccio, per guidare il coachee all’interno di uno stato in cui può lasciarsi completamente andare, sentendosi protetto e al sicuro.
Infatti, se questa chiusura non viene scardinata il rischio è quello di passare gran parte della sessione così, in una sorta di secco botta e risposta, che impedisce di poter eseguire bene l’intero processo.
Una storia suggestiva
Questo è un metodo conversazionale, quindi non abbiamo bisogno di dire al coachee che stiamo per raccontargli una storia ipnotica nella quale verrà suggestionato per sentirsi al meglio e quindi lavorare in modo efficace.
Anzi, dirgli una cosa del genere lo metterebbe solo in allerta: invece di ascoltare la storia, il suo fattore critico potrebbe concentrarsi su ogni singola parola, analizzandola alla ricerca di queste suggestioni.
Non importa di cosa parla la storia, l’importante è che:
- Risulti interessante per il coachee
- Sia raccontata attraverso lo schema linguistico dell’induzione semplice ericksoniana
- Contenga disseminati al suo interno delle suggestioni utili
Non è importante tanto il tema del racconto, quanto che contenga in sé tutte le motivazioni che consentano al coachee di sentirsi libero di esprimersi. È un po’ come un pre-talk che, invece di preparare all’induzione, prepara alla sessione di coaching.
Ecco un esempio pratico, nel quale sono incappato poche settimane prima di scrivere questo articolo: Severo L. era davvero motivato a fare del coaching ma le sue resistenze non erano poche. La sua più grande paura era quella di essere giudicato, ovviamente questo non lo sapevo. Ma mentre parlavo con lui e mi scontravo col suo esprimersi quasi a monosillabi, iniziò a ronzarmi per la testa una intuizione, che decisi di seguire. Così iniziai a raccontare:
Ti è mai capitato di avere a che fare con qualcuno che è pronto per il cambiamento? Alcuni sembrano incredibilmente determinati, a vederli da fuori sono pronti a spaccare il mondo. Ma dentro è tutta un’altra storia. Devono fare cose nuove, affrontare sfide che potrebbero tanto perdere quanto vincere, devono cambiare le proprie abitudini e, per quanto possano essere motivati, a volte nella loro testa compare una vocina che dice che non ce la faranno. A volte questa vocina elenca anche tutte le ragioni per cui non dovrebbero farcela.
Ora io non so perché qualcuno vuole cambiare: di solito c’è una situazione che non va più bene, da cui ci si vuole allontanare; oppure perché ci si sente attratti da qualcosa di nuovo che si vuole sperimentare. C’è qualcuno che vorrebbe cambiare i propri comportamenti: magari non gli piacciono, li trova imbarazzati e per alcuni c’è anche vergogna. Capita, è normale. Ma la vergogna viene dal fatto che si teme che le altre persone possano esprimere un giudizio negativo.
E, per carità, è così: le persone giudicano, lo fanno sempre, è più forte di loro. Certo, ci sono anche quelle che non giudicano, ma sono molte meno. La parte davvero interessante è che il peggior giudizio che qualcuno possa dare su di noi è una brezza primaverile rispetto ai giudizi che diamo su noi stessi.
Tempo fa stavo parlando con mio cugino piccolo e mi disse che una volta aveva rubato un giocattolo in un negozio. Me lo disse con le lacrime agli occhi, dicendomi che non era un ladro e che non dovevo dirlo alla madre. È normale, la madre sarebbe stata delusa. Oddio, non proprio delusa: la visione reale di suo figlio si sarebbe scontrata con la sua visione ideale. Insomma, la delusione della madre non riguardava tanto mio cugino, quanto lei. Comunque, per fartela breve, dopo un po’ che mi parlava quasi come se fossi io il proprietario del negozio a cui aveva rubato il giocattolo, lo interruppi e gli dissi che per me poteva rubare tutto quello che voleva. Anzi, lo sfidai a farlo di nuovo. “Ma no, non lo farei mai!” Così risposi: “Ho capito, sei quel tipo di ladro che ruba solo una volta, giusto per capire che non fa per lui e non lo farà più… cioè, non sei manco un ladro, sei solo uno che ha provato qualcosa che non gli piace”.
Dopo quel discorsetto ti assicuro che mio cugino si sentiva più leggero. Un po’ perché lo avevo aiutato a togliersi l’etichetta di ladro che si era attaccato addosso, un po’ perché l’assenza di giudizio da parte mia forse gli aveva mostrato che il proprio era decisamente peggiore. Era un po’ come se si giudicasse così perché era convinto che gli altri l’avrebbero giudicato in quel modo. Quando ciò non è avvenuto ha smesso di scervellarsi sul furtarello, così come su ogni timore riguardo la sua onestà.
Dopo questa storia, Severo L. mi chiese quanti anni avesse mio cugino e quando seppe che ne aveva nove si lasciò andare ad una risata non particolarmente divertita. Poi disse: “Mi sa che sono come tuo cugino… il che forse è grave vista l’età”.
Da quel momento in poi cominciò a parlare sempre di più, raccontandosi in modo a poco a poco più approfondito.
Ma perché questa storia ha funzionato?
I motivi sono quattro, vediamoli nel dettaglio:
- Rilevanza: la storia interessava il coachee. Se l’avesse ritenuta noiosa probabilmente avrebbe pensato ad altro e la mia voce sarebbe stata solo una sorta di rumore di fondo.
- Ricalco: quando ho parlato delle persone che si approcciano al coaching, così come quelle che temono il giudizio o di mio cugino, non stavo parlando di lui. Allo stesso modo ha potuto riconoscersi in quei comportamenti, senza però sentirsi chiamato in causa. Questo ha reso per lui accettabili i messaggi insiti nella storia.
- Messaggi nascosti: la storia contiene vari messaggi: il giudizio non riguarda la persona verso cui è posto ma chi lo esprime; quello che per noi può sembrare gravissimo per qualcun altro non è importante, anzi, è quasi naturale; io sono una persona che non giudica; chi vuole cambiare deve ridurre l’impatto che ha su di sé il giudizio altrui. Ma se gli avessi detto il tutto in modo diretto non avrebbe avuto lo stesso effetto. In primo luogo perché le storie sono più interessanti, in secondo luogo perché non gli stavo dicendo che doveva parlare di più, ma mi sono limitato a buttare la cosa lì, come una frase senza troppa importanza.
- Riconoscimento col protagonista: voglio essere sincero, quando ho iniziato a parlare non sapevo dove sarei andato a finire, ma calibrando il coachee mi rendevo conto che stavo andando nella direzione giusta, così gli ho parlato di mio cugino. Una persona lontana da lui per età e comportamento, che stava vivendo una situazione simile alla sua: insomma rubare un giocattolo era un esperienza distante da lui, ma allo stesso tempo strutturata in modo tale che potesse riconoscersi in quel percorso che aveva portato il bambino dal disagio alla leggerezza.
Sarò onesto, in questa occasione sono stato fortunato perché la mia intuizione si è rivelata giusta, ma non è sempre così. Per questo è estremamente importante calibrare la persona che si ha di fronte, per capire quanto la storia che stiamo raccontando si avvicinano.
La storia deve essere come una mappa che da un lato aiuta il coachee a capire che strada seguire, mentre dall’altra lo motiva a seguirla.
Qui di seguito voglio segnarti delle domande utili che ti aiuteranno ad avere le idee chiare prima di dar vita alla storia:
- Cosa blocca in questo momento il coachee?
- Di cosa ha bisogno per superare il blocco?
- Chiarito blocco e superamento ti viene in mente una storia tua, di altri, letta o vista in un film?
- In che modo puoi adattare la storia per il coachee?
- Che messaggi nascosti possono essere utili al coachee?
- In che modo li puoi inserire nella storia?
Secondo alcuni studiosi, le storie dovrebbero contenere simboli e metafore archetipiche che fanno leva sull’inconscio di chi le ascolta. In parte sono d’accordo, in parte no: una storia è prima di tutto un atto comunicativo e, come tale, per risultare efficace deve essere il più comprensibile possibile per chi ascolta.
La storia può riguardare anche l’incontro con un parcheggiatore abusivo, un gita a mare, così come può essere il racconto di una leggenda nordica. Non importa tanto il soggetto bensì il senso, i messaggi che trasporta, quanto questi risuonano con l’esperienza del coachee e quanto sono in grado di aiutarlo a superare l’impasse.
Rilassamento con suggestione di stato
Lo stesso risultato si può ottenere attraverso una induzione, seguita dalla suggestione dello stato emotivo che mette il coachee nella condizione di lasciarsi andare.
L’effetto è lo stesso della precedente strategia, ma alcuni elementi risultato più facili e altri più complessi.
Sicuramente indurre uno stato emotivo è qualcosa di estremamente semplice, tanto per un esperto di ipnosi quanto per un praticante alle prime armi, ciò rende questa metodo molto facile da applicare. Il problema è che non è sempre possibile utilizzarlo.
Ci sono persone terrorizzate dall’idea dell’ipnosi e, specialmente se sono consapevoli che la andrai ad utilizzare, nel momento in cui chiedi di chiudere gli occhi per rilassarsi ottieni l’effetto opposto.
Certo, la si potrebbe proporre anche come un esercizio di rilassamento, per lavorare in modo più sereno. Questo può rendere molto più accettabile la cosa, ma è pur vero che l’idea di chiudere gli occhi e farsi guidare da qualcuno indispettisce certi coachee.
Allo stesso modo, e per fortuna, esistono anche i casi opposti, coachee che all’idea dell’ipnosi e del rilassamento si lasciano trasportare con piacere.
Insomma, se la strategia vista prima può essere adoperata su qualsiasi coachee, in questo caso bisogna comprendere se l’idea può essere apprezzata. Siamo nella fase di accoglienza, la sessione di coaching non è ancora iniziata, per questo partire col piede sbagliato potrebbe ostacolare tutto il lavoro della sessione.
Vediamo adesso come si struttura il processo ipnotico:
- Chiedi al coachee di quale risorse avrebbe bisogno per sentire completamente a suo agio e libero di esprimersi.
- Fagli raccontare alcuni momenti della sua vita in cui le ha utilizzate
- Procedi con l’induzione e l’approfondimento
- Suggestiona lo stato emotivo
- Procedi con la riemersione
Chiedere al coachee qual è la risorsa di cui ha bisogno per iniziare la sessione al meglio solleva il coach del lavoro della deduzione, così facendo la possibilità di sbagliare risorse è ridotta. Ma è anche vero che il coachee potrebbe non avere la consapevolezza sufficiente per comprenderlo.
Anche in questo caso fare domande torna utile, ad esempio:
- Mi racconti di una volta in cui ti sei sentito completamente a tuo agio?
- Come sei quando ti senti libero di esprimerti?
- Ti è mai capitato di sentirti con qualcuno così sicuro da lasciarti andare?
L’obiettivo è quello di portare il coachee a rivivere i momenti in cui si sentiva a proprio agio, guidando la sua attenzione a comprendere quali risorse stava utilizzando.
Attenzione, però, alla parola “risorse”. Per chi conosce il coaching questa parola risulta molto comune, mentre potrebbe essere estranea per chi non lo conosce bene.
“Cosa intendi per risorsa?” è una delle cose che ti potrebbero essere poste. In questo caso cerca un sinonimo che sia chiaro al coachee: non importa che i concetti che andrai ad utilizzare siano corretti, quanto che il senso sia chiaro all’altra persona.
Una volta estratti quei momenti, si andrà a lavorare con l’ipnosi e, quando il coachee è in stato di trance, gli si chiederà di riviverli, dandogli come suggestione post ipnotica il risvegliarsi portando con sé quelle sensazioni.
C’è da aggiungere che iniziare la sessione di coaching in questo modo ha come effetto anche una maggiore predisposizione al lavoro che si andrà a svolgere. Quindi, quando il coachee apprezza questo metodo, una buona prassi può essere quella di cominciare la sessione proprio con un’induzione di rilassamento seguita da suggestioni utili a ciò che si farà subito dopo.
Insomma, se dovessi trovarti con qualcuno bloccato in questa situazione, ora sai come muoverti! Se ti va, fammi sapere se hai applicato questi consigli e che risultati ti hanno portato. Sarò felice di parlarne con te!